Non c’è alcun passato da ripristinare in tutte le storie e immagini letterarie di Edward Hopper (1882-1967). Racconti di solitudine, di tormenti, di attese, forse anche di paure che trasmettono un angosciante sogno a occhi aperti. Ma l’inserimento dei suoi personaggi nelle scene dei quadri obbedisce a strategie consapevoli, spontanee e intuitive, che avvicinano chiunque e attraggono in quanto appaiono come luoghi sottratti alla disattenzione della percezione fuggevole e superficiale della quotidianità ingenua. Ognuno vi può trovare i luoghi-anima con il proprio vissuto: nelle stanze di appartamenti, di motel, di alberghi, di uffici, nei foyer di cinema, in platea prima dello spettacolo, negli scompartimenti di treni, nei bar notturni, rigorosamente poco arredati e senza rumori.
Hopper delle metropoli luoghi di solitudine, delle praterie senza animali agitate da brezze regolari, arriva a Roma martedi’ prossimo al Museo Fondazione Roma, con una raccolta di opere provenienti in massima parte dalle collezioni del Witney Museum di New York. La mostra arriva nella capitale in seconda battuta, per motivi strettamente pratici: a Milano le160 opere esposte del miglior pittore realista del XX secolo sono state ammirate da 200 mila visitatori. “Abbiamo avuto così il tempo- spiega Emmanuele Francesco Maria Emanuele, presidente dell’Istituzione di via del Corso e artefice del progetto che ha portato Hopper per la prima volta in Italia- di far arrivare dagli Stati Uniti cinque capolavori, tra cui l’ “Autoritratto” del 1925-30. Sono tele importanti per arricchire la conoscenza del suo percorso artistico e che presenteranno al pubblico un pittore finora noto soprattutto attraverso riproduzioni fotografiche”. E continua Emanuele: “Le sue tele viste da vicino daranno la possibilità di entrare in sintonia con la sua sensibilità e scoprire i sentimenti del potere dell’immaginazione e della sua personale visione del mondo e della sua vita interiore”.
Chiuso nel suo “privato” insieme alla moglie Jo, anche lei pittrice e sua unica modella, ma soffocata dai successi del suo Ed (confidenzialmente), Hopper è un maestro delle narrazioni interrotte, create con uno stile e contenuti integralmente “americani”. europea. La luce fredda, quasi sempre di notte dei neon, o quella abbagliante e piena del sole di mattina, sviluppano tagli netti, esaltano membrature architettoniche, porte, finestre, vetrine e non smentiscono mai il suo incipit: “Quello che vorrei dipingere è la luce del sole sulla parete di una casa”, frase che spiega la sua coscienza di volere restare nello spazio aperto del mondo.
“New York Interior”, “The Sheridan”, “Seven A. M. e “South Carolina morning”: le quattro tele, tra le cinque novità visibili della mostra al Museo Fondazione Roma, renderanno percepibili, attraverso fotogrammi-immagine, il piccolo mondo dell’artista, popolato da perdenti, inetti, solitari che mal si adattano al modello sociale imposto dal sistema capitalistico, personaggi che appaiono in sintonia con molta produzione saggistica e letteraria del tempo.
Grande attesa per l’allestimento che guiderà l’antologica dell’artista che ha dipinto per quarant’anni l’altra faccia dell’ “America way of life” (curata da Carter Foster, catalogo Skira, due saggi in più di Vittorio Sgarbi e Marco Di Capua, organizzazione Arthemisia). Nel foyer del Museo il grande bar del quadro “Nottambuli”, ripreso da registi come Wenders, Beatty, non esposto, sarà ricostruito. Qui, tutti parleranno, il silenzio hopperiano sarà inesistente, ma svetteranno le linee architettoniche ispirate a Mies van der Rohe e il montaggio della scena sottolineerà che si tratta di un passaggio transitorio in cui la solitudine di una grande città può affermarsi. TORNA AGLI ARTICOLI