Di sicuro più orecchiabile di Biagio e di Ambrogio, il soprannome Giotto sembrò più adatto al giovane pastore per presentarsi a Cimabue, artista di grido fiorentino di passaggio per le valli di Vespignano diretto verso Bologna, in quello scorcio dell'ultimo quarto del XIII secolo. Vera o inventata che sia la descrizione dell'incontro Vasari la riporta nella biografia degli "eccellenti, pittori scultori e architetti"(1550), le cui notizie però riferite ad altri artisti non sono state sempre confermate dai documenti d'archivio. L'episodio del giovane talentoso che tratteggia con un sasso appuntito una pecora al naturale su una lastra è affascinante. Cimabue si dimostrerebbe così un formidabile talent-scout che scopre per caso il "principe dei pittori" (un complimento di Petrarca) tra le greggi in campagna.
Nessuna notizia certa sulla sua formazione, ma l'ascesa dell'allievo fu così rapida che in pochi anni oscurò la fama del maestro, la cui produzione era radicata alla tradizione bizantina anche se animata da un evidente impulso a umanizzare le figure divine. Dante nell'XI Canto del Purgatorio profetizza la superiorità del giovane nato a Colle di Vespignano (1267 circa) : "Credette Cimabue ne la pintura tener lo campo e ora ha Giotto il grido". Giotto nasce leader, perché intuisce le novità della borghesia emergente e comprende che sta nascendo a Firenze una civiltà protesa alla vita attiva che si evolve con ritmi moderni ed è fondamentale riconoscerne i mutamenti.
Il vero che trionfa. E' la stella cometa che segue nel suo irrefrenabile "furor" di frescante e pittore (muore nel 1337 a 70 anni) e che lo porta a toccare i principali centri artistici: Assisi, Roma, Padova, Napoli, Milano. Cinquanta anni di premiatissima attività in cui dimostra le sue indiscutibili doti di imprenditore che stabilisce con la sua èquipe un intenso affiatamento per soddisfare commissioni da papi, re, mercanti e banchieri. E' l'inventore di un nuovo linguaggio in cui le immagini pittoriche assumono lo scopo di narrare, illustrare i fatti come sono avvenuti e spogli da simbologie, solo fuorvianti quando si parla di realtà. Ciò che si vede rappresenta ciò che si vuole comunicare. Nel riconoscerli il ruolo di grande artefice dell'impaginazione visuale Vittorio Sgarbi ci porta di fronte alle Storie di S. Francesco, nella quinta monografia (da domani in edicola). Non si addentra nei meandri della discussione aperta da decenni tra gli studiosi italiani e anglosassoni per definire i margini della autografia di Giotto rispetto a quelli attribuiti a Filippo Rusuti e Pietro Cavallini, ma esalta l'estrema abilità narrativa nel rendere l'imitazione delle vesti, la solidità degli edifici e la capacità di rappresentare gli affetti, il timore, la speranza e l'ira come nell'episodio della "Rinuncia dei Beni". Ma per arrivare a definirlo "il miglior dipintore del mondo" Boccaccio ha visto la Cappella degli Scrovegni a Padova (1303-1305). E' l'inizio di una nuova era. In trecento metri quadri di colore nasce la pittura italiana. TORNA AGLI ARTICOLI