Ci sono spazi e tempi diversi. C'è un tempo scandito dall'orologio e ce ne è un altro proveniente dall'interno della persona. Donata Pizzi nelle quarantasei fotografie di "Roma in Africa" a Palazzo Braschi, in una cospirazione tra il tempo e gli elementi della natura mette a fuoco la sua maggiore forza poetica con il taglio orizzontale di antiche città da Volubilis in Marocco, fino a Cirene in Libia, attraverso Timgad e Djemila nella Kabilile, Tipasa lungo la costa algerina, Dougga, Thuburbo Maius, Sbeitla e il grande colosseo di El Djem in Tunisia, fino a Sabratha e Leptis Magna. Le sue immagini non sono un reportage di viaggio, né si impongono per la forza dell'antico. L'artista milanese, che ha focalizzato il suo lavoro negli ultimi anni sull'architettura coloniale italiana, sa che la sua ricerca esponendosi carica uno spazio e fa sì che esso si raccolga: come il silenzio, anche lo spazio diventa un composizione, riempiendo uno spazio e un tempo. Osserva con la sua macchina fotografica, una Hasselblad con un obbiettivo di 45mm., anche ciò che non è visibile, l'intuizione visiva. Ciò che ritrae è lo spazio interiore, lo spirito della rovina, la presenza dell'assenza. Dimostra che non le interessa ciò che manca: timpani, colonnati, bassorilievi.
Con la mutilazioni delle architetture la Pizzi ci insegna che la bellezza non risiede nella forma perfetta, bensì nell'evocazione emanata dal reperto archeologico, dalla pietra. Sono luoghi vuoti di umanità, santuari, templi, recinti sacri dalle quali è fuggita la divinità, ma anche monumenti in cui la pietra si carica di spiritualità grazie al gioco della luce naturale e ci restituisce una dimensione che non ci appartiene più. "La storia futura non produrrà più rovine. Non ha il tempo", profetizza il filosofo Marc Augé.. TORNA AGLI ARTICOLI