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Capolavori tra realtà e finzione di Fabiana MENDIA

Per arrivare a dipingere quell'indimenticabile cielo in una stanza per Ludovico Gonzaga, con putti acrobati, dame pallide e more che si pettinano affacciate alla balaustra, mentre un pavone attento come una vedetta sta in bilico sul cornicione, Andrea Mantegna era partito dallo studio dell'antico. Il suo noviziato a Padova presso la bottega dello Squarcione, sarto, antiquario, collezionista un po' padre padrone con i suoi allievi (li adottava per convenienza), immerso nell'archeologia documentaria del tempo, non lo aveva intrappolato senza scampo. Arrivato a Mantova alla fine del 1459, Mantegna, diventa attore di una nuova pièce: nella Camera degli Sposi, in una torre di Castel S.Giorgio interpreta il gusto della corte del marchese, fa sottintendere i piaceri, rappresenta le attese attraverso gli episodi storici dipinti sulle pareti che narrano della casata. Immerso il tutto in un sospeso silenzio. Le conversazioni e gli incontri avvengono a bassa voce.
Nel gioco della finzione che appare realtà, lo spazio della stanza è inteso come un grande padiglione che si apre in un giardino. Andrea si diverte a integrare gli arredi veri nelle scene che affresca. Usa il grande camino per disporvi sopra i protagonisti. A destra dispone una scala da cui salgono i dignitari con i berretti rossi . L'artista dà prova della sua espletata maturazione in tema di illusionismo prospettico. Porta alle estreme conseguenze una pratica che aveva accolto fin dagli anni giovanili, quando nella città di Virgilio e di Petrarca, dopo aveva studiato le opere di Donatello e il trattato di Leon Battista Alberti, aveva mostrato il suo talento nel ciclo della Cappella Ove tari e nel Polittico di San Zeno. Nella decorazione della "più bella camera del mondo" (così chiamata da Zaccaria Saggi nel 1475, ambasciatore dei Gonzaga a Milano) si legge un "allenamento" per prepararsi a realizzare il "Cristo in scurto" della Pinacoteca di Brera. E l'inedita soluzione, dell'oculo con i putti, prima volta di tale artificio prospettico nella pittura italiana, apre la strada alle cupole correggesche e barocche.
E' nel Cristo morto parzialmente avvolto nel sudario che Vittorio Sgarbi, nella terza monografia dedicata al pittore padovano (da domani in edicola), protagonista di tre osannate mostre a Padova, Mantova e Verona (da lui stesso promossa e appena chiusa) concentra la sua estasi concettuale (si ricorda l'impeto per ottenere il quadro a tutti i costi, per cui intervenne il ministro Rutelli). Il dramma si compie su una tela di 81 centimetri, dove Gesù, è compresso in uno spazio che crea un prodigio di verosimiglianza che diventa una regola universale. Il corpo divino è ripreso dai piedi, frontalmente, ridotto in altezza. Un senso di malessere pervade chi lo guarda: la tensione drammatica è altissima, resa visibile attraverso l'artificio della claustrofobica camera ardente, che ospita un cadavere che Mantegna disegna ispirandosi alla statuaria classica. E proprio la sua passione per l'antico lo rese infinitamente moderno per sempre.


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